Miklós Jancsó nacque a Vác, nell’Ungheria Centrale, il 27 settembre del 1921 da padre ungherese, Sándor Jancsó, e da madre romena, Angela Poparada. Dopo gli studi in un collegio religioso, dal 1939 al 1944 studia giurisprudenza, etnologia e storia dell’arte a Kolozsvár, in Transilvania (al secolo parte dell’Ungheria). In questo periodo l’Ungheria, alleata delle Potenze dell’Asse, viene occupata dall’esercito tedesco (19 marzo 1944).
Al termine del conflitto, studia cinema presso l’Accademia d’Arte Teatrale e Cinematografica di Budapest. Orientato verso i principi del socialismo, nel dopoguerra Jancsó aderisce ai cosiddetti collegi popolari, nati con lo scopo di rifondare la cultura e di creare una coscienza di classe nei figli dei contadini e degli operai per la costruzione di una autentica “democrazia popolare”. In questo periodo gira numerosi cortometraggi documentaristici, alcuni dei quali maturati durante un viaggio nella Repubblica Popolare Cinese.
Dal matrimonio con Katalin Wowesznyi, sua moglie dal 1949, nascono Nyika (Miklós Jancsó Jr., 1952) e Babus (Katalin Jancsó, 1955). Nel periodo di incertezza politica della destalinizzazione, con la Rivoluzione ungherese del 1956 e l’ascesa al potere di Imre Nagy, si fa spazio la proposta di una fuoriuscita dell’Ungheria dal Patto di Varsavia e ad una riduzione del ruolo ideologico e politico del Partito dei Lavoratori Ungheresi. Nell’autunno dello stesso anno, la rivolta guidata da Nagy sarà sconfitta dall’intervento militare dell’Armata Rossa. In questo difficile clima politico e culturale nasce il cosiddetto “Nuovo cinema ungherese”, di cui Miklós Jancsó sarà uno degli esponenti più autorevoli.
Il suo primo lungometraggio, Le campane sono partite per Roma (A harangok Rómába mentek, 1958), è ambientato nell’aprile del 1945 e termina con la liberazione del paese dalle forze armate naziste da parte dell’Armata Rossa. Dopo il divorzio da Katalin Wowesznyi, sposa la regista Márta Mészáros nel 1958. Nel 1959 conosce l’autore e sceneggiatore Gyula Hernádi, che collaborerà con lui fino alla sua morte nel 2005. Il film successivo, Sciogliere e legare (Oldás és kötés, 1963), mette in scena il dilemma esistenziale di un intellettuale e rivela l’influenza esercitata dalla poetica di Michelangelo Antonioni sulla sua estetica di allora. Sono venuto così (Így jöttem, 1964), storia dell’amicizia tra un ungherese e un russo alla fine della guerra, segna un primo avvicinamento ai temi dei film maggiori.
Jancsó conquista la notorietà internazionale con una poderosa trilogia incentrata sui momenti fondamentali della storia ungherese, che finirà per determinare gli stilemi del proprio cinema. Ridotta ai minimi l’importanza del contesto storico ed eliminata la complessità psicologica dei personaggi, Jancsó mette in scena complesse riflessioni sul potere, la repressione e l’intercambiabilità dei ruoli di vittima e carnefice. Distaccandosi dai moduli naturalistici più convenzionali, il suo stile si fa progressivamente più stilizzato, con scene di massa organizzate in rigorose coreografie modulate su schemi quasi geometrici e filmate con l’estensivo impiego di lunghi piani-sequenza.
I disperati di Sandór (Szegénylegények, 1964), primo film della trilogia, rivela Jancsó al pubblico internazionale. Ambientato nel 1848, durante la repressione dei moti popolari guidati dal rivoluzionario Sándor Petőfi, è una gelida riflessione sui temi della violenza e della ribellione. L’armata a cavallo (Csillagosok, katonák, 1967), una co-produzione con l’Unione Sovietica, è tratto dall’omonima raccolta di racconti di Isaak Ėmmanuilovič Babel’ ed è incentrato su d’un gruppo di soldati ungheresi coinvolti nel corso della guerra sovietico-polacca durante il travagliato periodo della Repubblica Russa di Kerenskij, nel quale radicalizza ulteriormente il suo stile, facendo a meno di una trama convenzionalmente delineata e aumentando la complessità delle coreografie. Il terzo film, Silenzio e grido (Csend és kiáltás, 1968), è ambientato nel 1919, durante la repressione della Repubblica dei consigli ungherese da parte dell’ammiraglio Miklós Horthy, ed adatta l’usuale messa in scena della violenza repressiva ad un contesto individuale (anche se estremamente ellittico e privo della convenzionale impostazione psicologica), mettendo in scena gli ambigui rapporti tra un comunista ricercato, l’ufficiale che gli dà la caccia, il contadino che lo ospita e la moglie di quest’ultimo.
Nel 1969, Jancsó abbandona temporaneamente l’ambientazione storica per girare Venti lucenti (Fényes szelek), dramma sociale ispirato alla contestazione studentesca che sta scuotendo l’Europa in quel periodo. In seguito, il film sarà adattato in uno spettacolo teatrale di successo. Nello stesso anno conosce la giornalista e sceneggiatrice italiana Giovanna Gagliardo, che diventerà sua collaboratrice e compagna di vita.
L’anno successivo torna ai suoi moduli più abituali con una quadrilogia dedicata alle origini ideologiche dei fascismi. Scirocco d’inverno (Sirokkó, 1969) ricostruisce l’attentato, avvenuto nel 1934, contro il re Alessandro I di Jugoslavia da parte di un gruppo di ustascia. Nel 1970, gira in Italia, a Roma, con la collaborazione della nuova compagna alla sceneggiatura, il film La pacifista con Monica Vitti protagonista, un tentativo (unanimemente considerato poco riuscito) di adattare la messa in scena stilizzata che gli è tipica ai moduli del cinema d’impegno politico all’ora emergente nella scena italiana. Con Agnus Dei (Égi bárány, 1971), ritorna in Ungheria, trattando nuovamente della repressione del regime di Horthy. Nuovamente in Italia, girerà poi per la RAI il film televisivo La tecnica e il rito (1972), di nuovo su copione della Gagliardo, in cui Attila incarna sia il compito ideologico e intellettuale del potere sia il suo ruolo repressivo e violento, venendo però poco apprezzato dalla critica.
Nel corso degli anni settanta, Jancsó radicalizza ulteriormente le sue scelte formali, integrando la messa in scena con coreografie sempre più complesse, simbolismi, danze e canti. Il primo passo in questa nuova direzione è segnato da Salmo rosso (Még kér a nép, 1972), in cui una rivolta contadina si carica di significati universali mediante un complesso apparato simbolico, e che gli fruttò il Prix de la mise en scène al 25º Festival di Cannes.
Dopo il film televisivo, girato nuovamente per la RAI, Roma rivuole Cesare (1974), una nuova riflessione sulla responsabilità del potere, Jancsó raggiunge l’apice della sua ricerca formale con Elettra, amore mio (Szerelmem, Elektra, 1974). Lasciatosi alle spalle la storia, il suo cinema affronta la dimensione del mito trasformando i personaggi in figure puramente allegoriche e dilatandone la complessità formale con un uso labirintico di riferimenti simboli, coreografie, composizioni visive e musicali, con risultati espressivi inediti.
Dopo questo exploit, la vena creativa del regista sembra attenuarsi a favore di soluzioni narrative più convenzionali. Di nuovo in Italia, nel 1976 presenta Vizi privati, pubbliche virtù, una rilettura alquanto libera ed in chiave profondamente ribellistica ed erotica dei fatti di Mayerling, pesantemente stroncato dalla critica, che accusò apertamente il regista d’essersi “svenduto”, e che fece alla sua uscita gridare allo scandalo, pur riscuotendo un certo successo commerciale.
Il decennio si chiude con una trilogia “incompleta” dal titolo Vitam et sanguinem, che avrebbe dovuto raccontare la storia dell’Ungheria dal 1911 al 1945 attraverso le vicende di due fratelli, figli di un proprietario terriero e ufficiali dell’esercito. I primi due film, Rapsodia ungherese (Magyar rapszódia, 1979) e Allegro barbaro (1979), vengono presentati al Festival di Cannes; la terza parte, Concerto, non verrà mai realizzata.
Il cuore del tiranno (A zsarnok szíve, avagy Boccaccio Magyarországon, 1981), storia di un despota ungherese coinvolto in intrighi di palazzo e rappresentazioni teatrali, e L’aube (1985), da un romanzo di Elie Wiesel, storia di un sionista incaricato di uccidere un soldato inglese durante il mandato britannico in Palestina, e che venne candidato all’Orso d’oro al Festival internazionale del cinema di Berlino, sono i suoi ultimi film girati nel suo tipico stile.
Nei film successivi, che hanno scarsa diffusione al di fuori dell’Ungheria, Jancsó abbandona definitivamente la stilizzazione allegorica che lo aveva contraddistinto a favore di una messa in scena più tradizionale e dall’ambientazione contemporanea. Con La stagione dei mostri (Szörnyek évadja, 1987) e L’oroscopo di Gesù Cristo (Jézus Krisztus horoszkópja, 1988) guarda agli avvenimenti che hanno segnato la fine del blocco socialista.
Nel 1990 gli è stato assegnato il Leone d’oro alla carriera al Festival di Venezia.
Nel 1999 ha ottenuto grande successo al botteghino ungherese con la commedia musicale A Pest il Signore mi ha messo una lanterna nelle mani (Nekem lámpást adott kezembe az ur Pesten).
Miklós Jancsó è morto a Budapest il 31 gennaio del 2014, all’età di 92 anni.
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